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Il punto che viene toccato è antico, per questo fa male. E’ l’assenza.
Ho imparato a ripartire da un’assenza, considerare l’assenza come un dato oggettuale e quindi un punto di partenza. Non si può colmare, ma si può andare oltre. Move forward.
La vita non si esaurisce in un vuoto.
Il vuoto non la rappresenta, la vita va oltre.
Anzi, l’assenza è il punto focale per la rivoluzione e il ribaltamento del pensiero e dell’animo.

Ma ora desidero tanto che la mia vita si riempia, che riparta da un pieno, e non da un vuoto.
Non voglio diventare solo più esperta a superare le deprivazioni.
Questa è una settimana molto delicata.

*citazione di Susan Sontag, da Malattia come metafora, traduzione di E. Capriolo, Einaudi, 1979

.

E’ incredibile come pochi giorni di malattia possano rivelarsi utili e necessari a riprendere in mano pienamente la propria vita.
Forse è stata veramente una malattia karmica? Magari! Qualcosa che mi sono covata e trascinata fin dall’operazione di p., che poi è esplosa e sfogata negli ultimi giorni?

Quando si è malati le cose che fanno parte della propria quotidianità, anche quella più minuta, e insieme il mondo che le circonda, il sole e i palazzi fuori dalla finestra, gli odori e le persone che si muovono nella strada, sono come allontanati, alieni, come visti attraverso uno schermo.

Mi sono scoperta a guardare le mie cose con un occhio alieno, quasi nostalgico, ma comunque separato.
Poi ci sono quelle piccole esperienze extra-corporee, tipo guardarsi “da fuori” dormicchiare sul divano o sentirsi come estranei in quelle stanze della casa che la malattia non lascia frequentare come al solito.

Gli oggetti della casa non sono più quelli di sempre, non li si tocca, non li si usa come prima. Da malati si è immobilizzati in una condizione a metà. vivi ma non presenti, non nello stesso stato e con le stesse facoltà del giorno prima.

E che gioia ritornare alla “normalità”! Al pieno possesso del proprio corpo e della propria mente (si fa per dire…), uscire da quel torpore che faceva un po’ allontanare dalla vita.

Mi chiedo se sarei capace di essere malata a lungo.
e’ molto difficile, veramente.
A me bastano 2 giorni per staccarmi, per sentire che gli oggetti, i ruoli, persino le persone si allontanano e che non mi appartengono più completamente.

Eppure oggi sono contenta di essere tornata alla vita, le mie cose mi sembrano ancora più succulente e gioiose, ho voglia di risolvere, di andare avanti, di fare pulizia, di vedere cose concrete dove ora c’è ancora nebbia.

E’ c’è stato anche un grande beneficio. Una telefonata che offre l’occasione di chiudere un capitolo non facile, impegnativo e un po’ pallosetto, ma che volevo chiudere da tempo.
Una grande opportunità, io non sarei stata abbastanza coraggiosa da prendere un’iniziativa qualsiasi per risolvere. Invece l’occasione è arrivata spontaneamente, proprio mentre ero malata e stavo desiderando che quella febbre spurgasse un po’ di karma!

Pare che riuscire a nominare i sentimenti per quelli che sono sia una conquista da non sottovalutare.
Ecco, allora oggi posso dirlo: sono profondamente triste.

let’s start

Punto di partenza.
Da qualcosa devi partire.
Trova qualcosa da cui partire.
Da che parte parti.
Parti da qualche parte.
Parti da qualche parte.
Parti da qualche parte.
Parti da qualche parte.
Parti da qualche parte.
Parti da qualche parte.
Basta partire.

A ciascuno il suo

Sono qui, stanza inondata di sole, tea (riscaldato) in tazza, cerco di trovare ispirazione per rispondergli.
Ho davanti la scatola che contiene le lettere ed altri ricordi. Voglio legare le lettere con nastro rosso.
La scatola puzza di muffa, come tutte le cose che provengono da quella vecchia casa.
La scatola contiene anche le lettere di F., un amorino del liceo. Come fanno ad essere più numerose delle sue? perchè mai le ho messe insieme? Sono accomunate dal livello di imbarazzo che mi creavano? (non credo, ce ne sono altre molto più imbarazzanti, in altre scatole muffose).
Tolgo le lettere importanti dalla scatola muffosa e le lego con il nastro rosso. Voglio fargli prendere aria. Quando avrò il coraggio, le rileggerò.
Penso che vorrei rispondergli, non trovo le parole giuste. Mi vengono in mente le sue:
qui la vita scorre tranquilla nell’attesa della pioggia.
Ti abbraccio e ti mando mille migliaia di baci
Devo lavorarci su.
Questi ricordi fanno parte della bigger picture? La bigger picture significa anche riprendermi pezzi di vita lasciati in disparte? Credo di sì, dei pezzi di vita non si butta via niente.
Per molto tempo il suo pensiero mi ha dato quasi fastidio, rappresentava qualcosa dal quale scappare.
Ho realizzato che di fronte a lui mi sono sempre un po’ vergognata, ero preda di un pudore vergognoso.
R. era scomodo perchè mi ricordava un tradimento. Vero o fasullo, ma comunque un tradimento. Avevo sepolto quella parte di me in mezzo alle nevrosi della sopravvivenza e della quotidianità. Non credevo di farcela, non credevo di poter tenere insieme quella parte di me con le altre. Sentivo costantemente il marchio del tradimento addosso, in come ero vestita, nelle notizie che potevo dare di me. Sentivo il marchio della banalità, dello squallore dell’ordinario. La tristezza di uno spreco, di una torta bruciata, di qualcosa che poteva essere diverso, forse migliore, e non è stato.
Aldilà dell’idealizzazione di un’adolescente nei confronti del “mentore”, era proprio vero che stavo tradendo.
Stavo tradendo la bellezza che lui mi ha insegnato a riconoscere, anche in me stessa. Ora ho smesso di sentirmi una traditrice. E infatti gli ho scritto.

Altro titolo del post potrebbe essere “figlia di Demetra”. La madre morta per eccellenza. La figlia di Demetra era Core (Persefone)? Non mi ricordo più. Non ho mai studiato abbastanza.
“Bisogna lavorare su questa madre malata”. Parole sante. Ma tutta ‘sta voglia, non so se ce l’ho.
Dunque, esce fuori che l’immagine-tipo della mia coppia genitoriale interna è rappresentata perfettamente dall’episodio delle costole. Mio padre che non riesce a sorreggere mia madre inferma, cade lui per primo, io la tengo, mi rompo due costole (e me ne accorgo dopo 5 anni). Due genitori malati. O comunque non in grado di sorreggersi da soli. E alla fine è la figlia che si rompe le costole.
Ok, va bene, ricominciamo?
“Bisogna lavorare sul materno.” Dice la mia analista. Santa donna, certo che centra sempre il punto focale. Lavorare sulla mia immagine interna di maternità positiva. Non più madri mortifere succhia-sangue, ma madri che sostengono. Una coppia di genitori giovani, sani (oddio, per me manco eravamo sani, io e M.!). Che riesce a fare un figlio. E sostenerlo. E accompagnarlo.
Niente da fare, Cavarero, Muraro e tutte le altre che lo hanno detto, avevano ragione .
Prima dei figli bisogna far nascere le madri.


Il problema, in giornate come questa, in periodi come questo (ma da quanto dura?) è l’effetto valanga.
Mi ci vuole così poco per trasformare la mia vita in un deserto! La morte del compagno di un’amica. Frustrazioni e impasse sul lavoro. Un figlio che non arriva. La famiglia complicata che complica. Tutto quello che rimandi di affrontare che incombe come una lastra di ghiaccio sopra una tettoia. Oddio, forse non è poi così poco.
Ma io so che non dipende dalle circostanze, è uno sguardo viziato. Ho lo sguardo desertificato, che desertifica. Non pregusto, non spero, non mi aspetto nulla di buono. Spero solo di evitare il peggio, ma non vedo il meglio.
Meno male che c’è il violino. Durante la lezione ho staccato un po’ la spina.
Ho voglia di vita succosa, di vita gioiosa, di quel sorriso interiore che ti viene quando la tua vita ti avvolge.
Ho voglia di quella vita che è come una bistecca sugosa, che poi ti scioglie in bocca, e butti giù un sorso di vino, e ti fai una risata. Ridere è una cosa che mi manca. Non è che non rida, è che non mi diverto.
Ma devo ricordarmi quello che ha detto Bruna: la mia vita non è un deserto, sono io che la desertifico con gli occhi. Non riesco a provare gratitudine per la mia vita, non riesco a sentirmi ricca di niente.
Telefilm come surrogati, pure friendfeed piuttosto che fare daimoku. Meno male che non tengo tequila in casa. Che in teoria avrei smesso di fumare. Fantasmi che cerco di far apparire perchè mi distraggano. Che casino. Tutto per ovviare alla mancanza di speranza. Non gioisco, non spero, mi porto sfiga da sola.
Quasi quasi mi rimetto a suonare il violino, mi sembra che funzioni. Almeno posso sperare di imbroccare almeno una nota.

what you do to me

Ritorna vivo il desiderio di fuga. La mia mente sfugge, cerca scappatoie a pastoie mentali ricorrendo ad altre pastoie mentali. Ho in mente un sacco di discorsi. Che non hanno nessun interlocutore appropriato. Solo interlocutori immaginari, ectoplasmi della mia mente. Che voglia di fuga. Devo fare attenzione, di nuovo.

Un’altra vita

violino
Dunque, in un’altra vita avrei potuto essere una violinista. Questo ha detto il mio maestro oggi.
“Peccato che tu non abbia iniziato 10 anni fa. Sei un po’ una violinista mancata. 10 anni fa ti avrei detto: arriviamo al diploma”.
Che felicità. Non posso rimproverare nessuno. Certo, non ho iniziato da piccola. Certo, avrei potuto iniziare a 16 anni. Avrei potuto iniziare a 25. Inizio ora a 35, ma sentirmi dire così dal mio insegnante, dopo 7 lezioni, è una gioia infinita.
Non ho voglia di recriminare, sono solo grata a M. per aver tirato fuori dal mio cassetto (e dal suo) questo sogno. Che non è un capriccio, non è uno sfizio o un vezzo intellettuale. E’ una parte di me. E oggi qualcun altro l’ha vista, non perchè mi vuole bene, non perchè vuole compiacermi. Non era un complimento, anzi. Era un “mi dispiace, non voglio infilare il coltello nella piaga, ma è così”. Davvero? che gioia, che gioia, che gioia.

Sono bastate 3, forse 4 parole. Dette da lei. E il macigno che pesava e piegava la mia schiena si è trasformato in un sasso. Fastidioso, ma portabile. Quanto mi acchiappa, la mia analista! E quanto mi mancava. E che sollievo. Finalmente, riuscire a dare un senso al gomitolo di sentimenti e all’incastro dei pensieri.
E’ stato come tornare a casa, dopo una giornata pesante, togliersi le scarpe, mettersi qualcosa di comodo e caldo, bersi un tè con il gatto in grembo. La giornata di merda non si cancella, nè ci sono antidoti per la merda del giorno dopo, ma almeno, godersi il tè.
Questo è l’effetto di una seduta dopo due mesi passati a vagare biascicando. Ora ci vedremo il prossimo mese, invece che tra due. La questione in ballo è sufficientemente succosa da giustificare un piccolo crescendo. Almeno per un periodo.
E’ incredibile come spostare lo sguardo al centro del problema possa essere già di per sè un sollievo, quando non una mezza soluzione. Ritorniamo al centro, per favore.